3^ Conferenza Nazionale sul Lavoro relazione introduttiva di Giorgio Langella

Partito Comunista Italiano  - Terza Conferenza Nazionale sul Lavoro Roma 23 settembre 2023

Relazione introduttiva di Giorgio Langella

Responsabile nazionale Dipartimento Lavoro PCI

 

3° CONFERENZA NAZIONALE DEL PCI SUL LAVORO G. LangellaPremessa

Sarebbe doveroso convincerci che, per cambiare lo stato di cose presenti, è necessario costruire un progetto complessivo di trasformazione del “mondo del lavoro”. Un progetto, quindi, che definisca gli obiettivi, priorità (e il percorso da seguire per raggiungerli) di una lotta, potenzialmente di massa, che non si limiti e non sia costretta alla pura declamazione di belle frasi inseguendo le questioni e i tempi imposti da altri in maniera scollegata.

Le iniziative e i conflitti non possono e non devono limitarsi ad azioni isolate ed estemporanee, fini a loro stesse che finiscono una volta terminata l’iniziativa stessa. Iniziativa che, anche se può anche non ottenere un successo immediato, deve essere seguita da altre che siano nel percorso delineato dal progetto.

In poche parole non possiamo farci dettare le priorità dalle mode o dalle “emergenze”. Dobbiamo essere noi a dettare l’agenda! E dobbiamo costruire le condizioni (e avere coscienza e volontà) di poter essere autori e attori di un progetto di trasformazione radicale del modello di sviluppo e del sistema.

Possiamo farlo da soli? Noi del dipartimento lavoro del PCI crediamo che sia difficile.

Pensiamo invece che sia utile e necessario creare un fronte ampio politico e sociale che possa incidere nella società. E che questo fronte, composto da forze che abbiano posizioni politiche per lo meno affini, possa affrontare anche (o soprattutto) la questione culturale (e di egemonia culturale) che si è via via perduta quando si affrontano questioni fondamentali come quella del lavoro.

Un’altra cosa. La “timidezza” nell’affrontare questioni che appaiono, oggi, troppo grandi per le nostre debolezze e la convinzione, per molti di noi, di non poter controbattere in maniera efficace perché non si è nelle istituzioni, sono indicative di una sorta di rassegnazione a una sconfitta culturale e ideologica che sembra a molti definitiva. Cosa, questa accettazione di impotenza, che dobbiamo assolutamente rifiutare e combattere.

Facciamo un appello innanzitutto alle organizzazioni politiche che si dichiarano comuniste, a quelle associazioni che danno alla soluzione delle questioni del lavoro la massima priorità, alle organizzazioni sindacali che hanno il coraggio di riconoscere fallita la pratica della concertazione, a chi si riconosce ancora nei principi e nei valori della Costituzione del ’48.

E’ necessaria, oltre che utile, una piattaforma che parta dalla situazione disastrosa delle condizioni del lavoro e che disegni prospettive assolutamente alternative al sistema attuale e al modello di sviluppo oggi trionfante.

Si prenda come assunto che il capitalismo è un sistema fallimentare per chi lavora. Il capitalismo dominante si fonda sullo sfruttamento dell’uomo e ci fa credere, con il controllo dei media e con l’imposizione di un pensiero unico, che esso stesso sia l’unico sistema possibile. Impone la divisione tra i lavoratori e la competitività tra gli stessi, l’esistenza di innumerevoli “contratti di lavoro” e condizioni un tempo inaccettabili. Ha trasformato la solidarietà e la classe lavoratrice in un insieme sparso di individui assoggettati anche culturalmente a quel “realismo capitalista” che pare senza via d’uscita. È il trionfo di quella frammentazione del mondo del lavoro inseguita da decenni da una classe imprenditoriale espressione di quel capitalismo cialtrone così diffuso nel nostro paese.

Noi ci dobbiamo opporre con determinazione a questa deriva e l’appello all’unità (si sarebbe detto anche solo pochi decenni fa “unità di classe”), con il quale iniziamo questa conferenza, diventa a nostro avviso oggi qualcosa di rivoluzionario.

Le troppe divisioni tra partiti comunisti e anticapitalisti, tra sindacati, tra lavoratrici e lavoratori, tra chi ha contratti di lavoro decenti e chi è costretto alla precarietà o al lavoro nero (che diventa un rapporto di lavoro quasi normale al quale è difficile sottrarsi) devono essere accantonate, spazzate via.

Facciamolo seriamente, senza nessun rimorso o rimpianto.

Mettiamoci tutti in discussione senza perdere tempo prezioso perché, mentre noi litighiamo, gli altri (i padroni) vanno avanti spediti imponendoci il loro campo di battaglia e i loro diktat.

Infine, il progetto di unità d’azione che dovrebbe essere costruito anche con organizzazioni sindacali e politiche che operano oltre i nostri confini geografici, a livello perlomeno europeo, con una visione internazionalista di classe.

Un lavoro sempre più povero, pericoloso, malpagato

Alcuni cenni sulle questioni che sono emblematiche del modello di sviluppo capitalista oggi trionfante e del progressivo sfruttamento che lavoratrici e lavoratori devono subire. Sono questioni strettamente legate tra loro che devono essere affrontate nella loro complessità.

Precarietà

Nel modo del lavoro (con la diminuzione dei diritti, l’aumento del lavoro nero, le norme che “liberalizzano” appalti e subappalti a cascata, le esternalizzazioni, il lavoro somministrato, quello interinale, le cooperative trasformate in “fucine di sfruttamento”, gli oltre 1000 contratti di lavoro, la reintroduzione dei voucher, la criminalizzazione dei conflitti), la precarietà è diventata la “normalità”. Con il Jobs Act e la cancellazione, di fatto, dell’articolo 18, anche i contratti a tempo indeterminato diventano effimeri, deboli e non danno garanzie certe … la “giusta causa” è stata sostituita da una “ricompensa”. Il licenziamento può colpire chiunque e per qualsiasi motivo. La perdita del lavoro viene compensata dalla retribuzione di qualche mensilità. Così, eventuali assunzioni successive potranno essere fatte a condizioni peggiori e penalizzanti per il “neo assunto” che diventa un nuovo precario privo di garanzie … le retribuzioni saranno inferiori e, magari, pagate dal pubblico. Questa è, oggi, la situazione abituale, quella ritenuta normale, conseguenza dello smantellamento delle regole che garantivano condizioni di lavoro più stabili e sicure. Si ribaltano i principi costituzionali: il lavoro non è più un diritto ma una concessione, un privilegio.

In questo contesto non possiamo non evidenziare come la precarietà sia una condizione che colpisce soprattutto le fasce meno garantite e, quindi, ricattabili: le donne, i giovani, i migranti (basti pensare alla condizione che vivono i braccianti nei campi, chi lavora nei cantieri, nelle case di riposo, nelle cooperative …), i pensionati poveri … Nuovi emarginati spesso relegati ai margini della società e “disposti a tutto” pur di lavorare e avere qualcosa anche minimo in cambio. Persone isolate, spesso costrette a vivere in veri e propri ghetti.

È un ritorno indietro, a periodi antecedenti allo sviluppo dei grandi movimenti sindacali e politici e alle lotte condotte dai lavoratori nel secondo dopoguerra. È un declino che inizia con la sconfitta alla Fiat e prosegue con quella sulla scala mobile, con la “dismissione” del P.C.I. con la Bolognina, con la trasformazione del conflitto e della contrattazione in una concertazione diventata principale “strumento” sindacale, con le privatizzazioni di tutte (o quasi) le aziende e le banche pubbliche … In definitiva, abbiamo perso quando non siamo più stati capaci di “sognare”, di progettare e di lottare per una società migliore rassegnandoci alla resilienza e al contenimento del danno.

È possibile pensare che si possa rimediare? Che si possa ancora lottare perché chi lavora riesca a ridiventare protagonista della storia? Per noi comunisti non è solo una possibilità è un dovere. Non rinunciare alla lotta, non “tradire” la classe di riferimento, questa è la nostra “questione morale”.

Combattere la rassegnazione deve diventare una parola d’ordine forte. Tra le crepe del disastro, possiamo ancora vedere qualcosa di concreto. Una speranza che viene dai conflitti spesso isolati ma che è necessario siano collegati tra loro, una speranza che vede protagonisti gli “ultimi”, i lavoratori della logistica, i migranti, i rider … i precari, i disoccupati. Categorie che spesso vengono considerate poco o meno importanti di altre (magari accecati dal ricordo di cos’eravamo o, forse, perché stentiamo a comprendere le mutazioni in atto nel mondo del lavoro) e che, invece, spesso dimostrano una forte volontà di reagire alle condizioni alle quali sono costretti.

È una crescente “folla” di lavoratrici e lavoratori con la quale è nostro dovere interagire e alla quale dobbiamo proporre soluzioni che permettano di fuggire dalla situazione di precarietà e sfruttamento estreme nella quale il sistema li vuole cacciare.

Trasformare la “folla” in “massa” è un compito al quale non ci dobbiamo e non ci possiamo sottrarre.

Salute e sicurezza sul lavoro

Malattie professionali, infortuni, morti nei luoghi di lavoro non sono emergenze ma la normalità. Qualcosa a cui si è fatta l’abitudine.

La totale inadeguatezza della politica istituzionale al riguardo è sotto gli occhi di chi vuole vedere. Non è solo incapacità di affrontare organicamente la questione, di cercare e trovare delle soluzioni, è prima di tutto indifferenza. Un’indifferenza che soffoca con il silenzio le notizie che, guarda caso, appaiono solamente quando non se ne può fare a meno, quando l’incidente mortale è particolarmente cruento, quando le vittime sono più lavoratrici e lavoratori. Un modo di lavarsi la coscienza.

Dai dati dell’Osservatorio Nazionale di Bologna morti sul lavoro curato da Carlo Soricelli (con il quale siamo in rapporti sempre più stretti) si capisce che, in questi ultimi anni, i morti sul lavoro aumentano in maniera significativa. Da inizio 2023 al 20 settembre ci sono stati 695 morti per infortunio nei luoghi di lavoro e, con i decessi in itinere (che è giusto conteggiare in quanto dovuti spesso alla fatica, allo stress, alla stanchezza che il lavoro oggi impone e provoca), si superano i 1070. Numeri spaventosi e molto maggiori rispetto a quelli diffusi da INAIL che conta solamente le denunce degli infortuni dei propri assicurati.

Le morti sul lavoro non sono solo “distrazioni” o “tragiche fatalità”. Queste, che certamente esistono, dipendono da fattori che sono intrinseci al modello di sviluppo capitalista. Un modello che, come abbiamo già detto, favorisce e genera la frammentazione del mondo del lavoro, l’assenza di solidarietà tra chi lavora, l’individualismo, la rassegnazione, la solitudine e, quindi, l’accettazione della normalità di deboli e indifesi.

La mancanza di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro è il risultato di condizioni di lavoro sempre peggiori, della velocità imposta dalla necessità di “fare presto” e “lavorare di più e più a lungo”, delle retribuzioni insufficienti, dell’essere sempre e comunque sotto ricatto, del livello sempre più scarso di sindacalizzazione, del crescente ricorso a forza lavoro esterna (interinali, somministrazione, cooperative, appalti e subappalti a cascata …), della esiguità degli investimenti (nonostante recenti dichiarazioni ministeriali assicurino la disponibilità di risorse adeguate) per formazione, prevenzione, controllo e, anche, repressione degli abusi e le regole disattese.

Non è sufficiente assumere nuovi ispettori del lavoro (condizione necessaria ma non sufficiente) e introdurre per legge il reato di omicidio sul lavoro (utile ma non sufficiente).

La questione deve essere affrontata a 360°, garantendo lavoro stabile e sicuro, diminuendo l’impatto ambientale e l’inquinamento, indirizzando la tecnologia verso la realizzazione di strumenti (materiali e immateriali come software, procedure, metodologie …) sempre più efficienti ed efficaci che garantiscano la sicurezza ai massimi livelli possibili.

La questione salariale

Innanzitutto bisogna porsi una domanda: chi deve pagare la crisi, l’incapacità di direzione, l’assenza di qualsiasi piano industriale, la rincorsa al profitto, le guerre di “lorsignori”?

La risposta dei padroni e dei governi a loro asserviti è chiara: deve essere chi vive del proprio lavoro. Dobbiamo essere coscienti che è proprio questa risposta, e la sua attuazione nei fatti, che ci ha portato a una situazione insostenibile per chi vive del proprio lavoro o non lo trova, per i giovani e i pensionati. Situazione nella quale è normale l’aumento della povertà, delle bollette, dell’inflazione … di un carovita che colpisce la classe lavoratrice e che viene affrontato con bonus irrisori e temporanei e con regalie a chi la crisi l’ha provocata.

C’è un problema di fondo che è quello che nessuno mai è responsabile di questa situazione. Soprattutto chi possiede la stragrande maggioranza della ricchezza ritiene di dover avere sempre di più. Quando si parla di riforma fiscale lo si fa per promettere la “flat tax”, per diminuire le aliquote fiscali alle fasce più alte di reddito, per garantire i patrimoni miliardari dei più ricchi, per concedere agevolazioni, incentivi e risorse pubbliche alle imprese. “Patrimoniale” e “lotta all’evasione fiscale” sono parole scomparse dallo scenario politico istituzionale. Sono diventate, così come l’aumento strutturale dei salari e delle pensioni, una sorta di bestemmia. Non parliamo delle promesse elettorali sempre disattese, parliamo della realtà. E la realtà è (per esempio) che esistono una cinquantina di miliardari che possiedono un patrimonio complessivo che supera i 200 miliardi e che è cresciuto negli anni di pandemia e crisi. A fronte di ciò il salario reale medio annuale di chi lavora è diminuito rispetto a 30 anni fa ed è inferiore di circa 8000 euro rispetto a quello medio della UE.

Non solo, si vorrebbero ripristinare per legge le gabbie salariali (che in maniera silenziosa e senza clamore, di fatto, esistono già se è vero, come viene rilevato da più parti, che le retribuzioni a parità di impiego del Sud sono inferiori di circa il 10% rispetto al Nord Italia). E quando si afferma che anche la vita al sud costa meno viene fatto null’altro che becero populismo a vantaggio del padronato in quanto non si tiene in conto, né della situazione dovuta alla cronica mancanza di lavoro aggravata dalla cancellazione del reddito di cittadinanza, della conseguente necessità di emigrare in zone più ricche, della disperata situazione dei servizi e dello Stato sociale nel nostro meridione. Il tutto aggravato da un progetto di autonomia differenziata che creerà ulteriori disuguaglianze.

Anche questa, la questione meridionale mai risolta, non è né utile né possibile lasciarla appesa a slogan e soluzioni e progetti irrealizzabili o, peggio, inutili se non dannosi (vedi ponte sullo stretto). Dobbiamo affrontarla con analisi e proposte serie e soluzioni radicali di trasformazione dell’attuale sistema. Sfruttando e utilizzando le grandi potenzialità del nostro meridione dal turismo all’agricoltura e non solo, combattendo (ma seriamente) i poteri mafiosi, lo sfruttamento intensivo di manodopera che utilizza il ricatto come forma contrattuale, il caporalato, il lavoro povero e precario che, soprattutto in quei territori, sono pratiche particolarmente diffuse.

Di fronte a tutto questo non diventa, forse, necessaria una legge che ripristini una nuova scala mobile permettendo a chi lavora di mantenere un livello di vita dignitoso? Non ci sono, forse, le conoscenze tecnologiche e non si potrebbero creare quegli algoritmi “democratici” che permetterebbero di formulare soluzioni congrue e realistiche, volte a garantire prioritariamente benessere a chi lavora? A chi, cioè, ha pagato le crisi passate, sta pagando le attuali e ha subito e mai governato né controllato le “novità”?

Quando parliamo di indirizzi da dare nella ricerca e nell’uso dell’innovazione ci riferiamo anche a questo.

Rapporti tra formazione e lavoro
(PCTO – alternanza scuola-lavoro e ITS Academy)

Anche questa è una questione che ci deve interessare e sulla quale dobbiamo aver presente il “fatto (ideologico) a monte”. Cosa intendiamo? In pratica significa avere coscienza di dover scegliere se l’istruzione (la conquista del sapere che comporti una crescita culturale e civica non solo dei giovani), debba sottostare alle “esigenze” dell’impresa privata o se debba avere come obiettivo formare cittadini coscienti che possano conquistare gli strumenti per progettare, pianificare, costruire e partecipare allo sviluppo industriale ed economico del paese.

Significa anche dover scegliere a chi si possa lasciare in mano il potere di decidere quale debba essere il modello di sviluppo. Si tratta, in definitiva, di rispondere a una semplice domanda: si può delegare all’impresa privata il potere di decidere cosa si debba studiare e chi possa accedere alla conoscenza e ai saperi?

Permettere la creazione di una folla di “lavoratori utili”, privi di diritti che chieda poco perché così gli è stato insegnato attraverso “stage” sotto pagati o non retribuiti, significa anche stabilizzare le differenze tra chi può permettersi studi più avanzati (perché appartiene alla classe dominante) e chi potrà solo perseguire una “carriera” di formazione lavoro. È il ritorno (già, per altro, in fase avanzata) a una scuola divisa in classi che mummifica la differenza tra ricchi e poveri facendo carta straccia della Costituzione.

L’ingresso dei produttori di armi e, direttamente, delle forze armate nelle scuole (una sorta di alternanza scuola-caserma) e del “reclutamento” degli studenti con la promessa di un posto immediato e sicuro, pone ulteriori certezze su quali siano gli obiettivi delle politiche e dell’ideologia che sta alla base del progetto di modello educativo asservito all’impresa e voluto dalle classi dominanti.

Per questo i comunisti devono essere fermamente contrari al PCTO (ex alternanza scuola-lavoro) così come concepito e a quella “sostituzione” delle Università con ITS Academy controllate dalle associazioni padronali.

In poche parole rifiutiamo che siano le imprese a decidere cosa si debba studiare e utilizzare il periodo nel quale chi studia è “obbligato a lavorare” con “capitale umano” (orrendo termine che è entrato nell’uso comune come sinonimo di lavoratori e lavoratrici) a costo zero.

Rappresentanza

Ultimo punto, non certo per importanza dal momento che tutti sono fortemente correlati tra loro e che hanno priorità analoghe, è quello di dare voce a chi lavora e di garantire una reale rappresentanza politica e, soprattutto, sindacale rompendo gli schemi e le convinzioni attuali.

Si impone una nuova legge sulla Rappresentanza di chi lavora che garantisca a tutti i lavoratori e alle lavoratrici di poter scegliere i propri rappresentanti, chi ha le competenze per poter trattare e portare a casa risultati. E quando si scrive “tutti” si intende chi lavora in qualunque condizione con qualsiasi contratto di lavoro, a tempo indeterminato, determinato, a chiamata, gli esternalizzati, le false partite iva …

Questo a prescindere da equilibri e alchimie di vario genere e da logiche legate alla concertazione che, come evidenziato, che rifiutiamo e che si è rivelata pratica fallimentare e negativa per chi vive del proprio lavoro.

Alcuni spunti per una riflessione su innovazione tecnologica (e suo utilizzo)

Il problema della scienza, della ricerca e della tecnologia non può essere ridotto al fatto se esse siano buone o cattive a prescindere. Si tratta di decidere a cosa e a chi serve l’innovazione e come debbano essere utilizzati i risultati ottenuti. In poche parole chi può e deve controllare, chi può e deve finanziare …

La scelta è decidere se l’innovazione tecnologica (strumenti materiali e procedure) serve a creare profitto o a “salvare le vite” (il caso della ricerca sanitaria è emblematico così come quello della produzione energetica) lavorando meglio, meno, in sicurezza e retribuzioni adeguate.

Posizioni antiscientifiche, a-scientifiche, persino complottiste, tendenti a pensare che la scienza sia, di per sé, negativa (o almeno settori di essa), esulano dalla politica e dagli obiettivi che i comunisti dovrebbero perseguire.

Non è possibile né utile e tanto meno necessario, lasciare i risultati dell’innovazione tecnologica (che, ne sono convinto, non si può fermare) a chi vuole una scienza asservita al mero profitto così che i vantaggi per “la gente comune” siano solo “armi di distrazione di massa” mentre gli svantaggi per la collettività diventano “necessari danni collaterali” (l’aspetto “cambiamenti climatici” è indicativo di quella che è stata una sorta di resa al sistema capitalista senza tentare di contrattaccare e neppure opporre una adeguata resistenza).

E si dovrebbe analizzare, in maniera approfondita e scientifica, senza seguire la moda del momento o qualche fascinazione, le questioni poste dall’esistenza, dallo sviluppo e dall’indirizzo che si vuole dare all’Intelligenza artificiale (AI). In prospettiva e già adesso si possono immaginare problemi molto seri che potranno avere ripercussioni drammatiche sulla vita stessa e sui diritti (già martoriati) del lavoro.

Le domande che bisogna porsi sono molteplici e sostanzialmente ideologiche.

Si vorrà costruire “la macchina” priva di “errore” che sembrerà ragionare e comportarsi come “l’umano”, sostituendolo? Una macchina materiale o virtuale che sembrerà essere in grado di creare, di immaginare … persino di sognare? Che in apparenza potrà acquisire spirito critico, magari anche il conclamato libero arbitrio e perfino quella cosa che si potrebbe definire “la folie”, che sarà capace infine di innamoramento e di fantasia?

E non saranno, allora, “le persone” che verranno ridotte a seguire modelli (procedure, algoritmi) imposti dalla “macchina”? Che verranno indotte (o costrette) a “pensare” come essa? Che assumeranno, cioè, vincoli all’interno di schemi imposti da fuori e che si abitueranno ad elaborare pensieri che non dovranno discostarsi da quelli ammessi dal sistema dominante, dai costruttori e dai controllori della “macchina”?

La scelta in definitiva è sempre quella tra capitale e lavoro, tra chi avrà la “proprietà” dei nuovi strumenti (materiali e virtuali).

È necessario rispondere alla domanda già formulata in precedenza: sarà “la macchina” a servire “l’umano” o sarà “l’umano” che verrà assorbito dall’abitudine di seguire “la macchina” (e di obbedire agli algoritmi come avviene già oggi in tante situazioni – vedi rider)? Se non riusciremo a rispondere concretamente o ci limiteremo a vedere cosa succede e al massimo tentare di contenere il danno, saremo poi in grado di distinguere cosa ci sarà, nel comportamento umano, di imposto artificialmente e cosa di originale e creativo? La nostra eventuale apatia o paura nell’affrontare la questione non aprirebbe, forse, la strada alla trasformazione definitiva della “collettività di coscienti” in “folla di inutili passivi”?

A queste siamo tenuti a trovare risposte che non siano quelle del totale rifiuto di qualcosa che comunque sarà impossibile fermare.

Proviamo, quindi, ad affrontarle in maniera non conformista e estranea a quel “realismo capitalista” che pervade il pensiero comune (e spesso anche il nostro).

È una nuova sfida tra rivoluzione e reazione, tra essere liberi ed essere schiavi, che determinerà l’esistenza ancora di una coscienza e di una solidarietà collettiva a dispetto di un trionfo individualistico di chi si crederà, grazie al ruolo di creatore e controllore della “macchina”, padrone dell’esistenza degli “altri” necessariamente “inferiori”.

È, come sempre, un conflitto di classe che impone di scegliere tra socialismo e barbarie.

La (ri)costruzione della coscienza di classe e il ruolo dello Stato (e di cosa esso dovrebbe essere) diventano fondamentali. Realizzare il progetto per una trasformazione di sistema perché lo Stato sia “dalla parte di chi vive del proprio lavoro” oggi può essere, per tanti, un’utopia irrealizzabile. Forse, ma iniziamo a pensare che sia possibile, uniamo le debolezze e la frammentazione che oggi ci costringono a una rassegnata resilienza. È la maniera di avere la forza per spezzare le catene che ci opprimono e non per stringerle ancora di più.

Non possiamo aspettare che siano gli eventi a dettarci la linea.

Diamoci una mossa.

“I proletari non hanno nulla a perdere, all’infuori delle loro catene:

Essi hanno un mondo da guadagnare.”             

gl – 23 settembre 2023

 

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